Una Canzone sull’Amore che rende Ciechi

La canzone “La ballata dell’Amore cieco” di Fabrizio de Andre descrive la dinamica di un amore che arriva a far diventare cieca una persona. Nel testo della canzone si parla di continue prove estreme d’amore che la persona amata chiede all’altro, finalizzate ad annullare del tutto la personalità in un perverso gioco di potere

“Un uomo onesto, un uomo probo
Tralalalalla tralallaleru
S’innamorò perdutamente
D’una che non lo amava niente.Gli disse portami domani
Tralalalalla tralallaleru
Gli disse portami domani
Il cuore di tua madre per i miei cani.Lui dalla madre andò e l’uccise
Tralalalalla tralallaleru
Dal petto il cuore le strappò
E dal suo amore ritornò.Non era il cuore, non era il cuore
Tralalalalla tralallaleru
Non le bastava quell’orrore
Voleva un’altra prova del suo cieco amore.Gli disse amor se mi vuoi bene
Tralalalalla tralallaleru
Gli disse amor se mi vuoi bene
Tagliati dei polsi le quattro vene.Le vene ai polsi lui si tagliò
Tralalalalla tralallaleru
E come il sangue ne sgorgò
Correndo come un pazzo da lei tornò.Gli disse lei ridendo forte,
Tralalalalla tralallalero
Gli disse lei ridendo forte,
L’ultima tua prova sarà la morte.E mentre il sangue lento usciva
E ormai cambiava il suo colore,
La vanità fredda gioiva,
Un uomo s’era ucciso per il suo amore.Fuori soffiava dolce il vento
Tralalalalla tralallaleru
Ma lei fu presa da sgomento
Quando lo vide morir contento.Morir contento e innamorato
Quando a lei niente era restato
Non il suo amore non il suo bene
Ma solo il sangue secco delle sue vene. “

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private (anche telefoniche e/o via Skype)tel.320-8573502 o email:cavaliere@iltuopsicologo.it

Nelle Relazioni si trovano le parole giuste ma si sbaglia l’accento

Le persone
trovano sempre le parole giuste,
ma sbagliano l’accento.
E vedo che preferiscono
i prìncipi ai princìpi
che si pèrdono sul perdòno,
che vogliono tutto sùbito
senza ricordare cosa hanno subìto
che non gettano mai l’àncora
ma ne vogliono sempre ancòra
che desiderano le loro vite leggère
ma non sanno lèggere negli occhi
e ho capito che
le persone
trovano sempre le parole giuste,
ma sbagliano l’accento.

(Gio Evan)

In questa bellissima poesia di Gio Evan viene espresso quella che è una degli errori principali nella comunicazione di coppia: sentire e voler comunicare le giuste parole ma sbagliarle nell’esprimerle. Sbagliare anche un semplice accento può cambiare il senso di una parola al pari di sbagliare una tonalità nel comunicare può cambiare il senso della comunicazione stessa. Scelta delle parole, tonalità nel comunicare ed, appunto, anche accento possono avvicinare l’altro come allontanarlo.

Come affermava il sociologo Bauman: ‘Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione‘ 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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Relazioni tra reale e irreale – L’intimità virtuale del film “Her”

Oggi più che mai, in un periodo di forzato isolamento e di distacco dagli affetti e dalle relazioni vis a vis, il ruolo della tecnologia e dei social assurge a strumento primario e necessario per contrastare gli effetti della solitudine. I suoi meccanismi e contraddizioni però portano spesso a interrogarsi sugli effetti nella vita reale e nell’equilibrio psicologico delle persone e sulla loro natura di effettivi facilitatori o creatori di un sistema illusorio di relazioni (im)produttive.

Tra i film che meglio analizzano l’evoluzione del nostro rapporto con il virtuale sicuramente “Her” è uno degli esempi di maggior rilievo. Uscito nel 2013 ,“Her” è un film diretto e scritto da Spike Jonze con protagonista Joaquin Phoenix e vincitore del Premio Oscar alla miglior sceneggiatura. Ambientato in un futuro non troppo lontano in cui i computer sono ancora più parte integrante della quotidianità, segue le vicende di Theodore, che per lavoro scrive lettere per conto di altri dettandole al pc. Proprio la sua occupazione, in cui si ritrova a esprimere sentimenti altrui, denota la sua particolare sensibilità e profondità nel vivere i rapporti. A farne da controparte vi è però la sua difficoltà nel relazionarsi ad altre persone e mostrare i suoi sentimenti e i suoi pensieri più profondi.

Uomo solitario e alle prese con un matrimonio da poco finito, Theodore decide di provare un nuovo sistema operativo molto avanzato, scegliendo una voce di interfaccia femminile. Samantha, questo il nome della voce del sistema, ha una straordinaria capacità di apprendimento e di evoluzione e inizia ad instaurare un rapporto sempre più profondo con il giovane scrittore. Capace di un vero e proprio sviluppo psicologico, il sistema operativo (la cui voce nella versione originale è di Scarlett Johansson) riesce pian piano a rimettere in piedi Theodore consentendogli di affrontare la rottura con Catherine, la sua ex moglie, e di uscire dalla malinconia e apatia che lo avevano completamente avvolto. La fine del suo matrimonio lo porta a prendere coscienza dei suoi limiti e a concentrarsi su quanto una relazione sana richieda anche spirito di sacrificio e compressi.

Theodore e Samantha iniziano così una inusuale storia d’amore, tra materiale e immateriale, in cui l’affinità intellettuale supera anche la mancanza di un corpo. In una Los Angeles sempre più connessa, in cui altissimi grattacieli e skyline fatti di luci fanno da sfondo alle passeggiate romantiche dei due, non si può fare a meno di riflettere su quanto la tecnologia si ritagli un posto sempre più grande nelle nostre vite andando a colmare inevitabili vuoti relazionali. Sempre più connessi ma sempre più distanti, questo sembra il messaggio di Jonze, quanto mai attuale. Deleghiamo ogni giorno di più il nostro mondo affettivo alla tecnologia; ormai anche la conoscenza avviene su app di incontri supportando così le nostri relazioni in maniera solo apparentemente innocua.

Oltre al lato virtuale, la relazione tra Theodore e Samantha è contraddistinta dalla piena dedizione da parte di quest’ultima nei confronti dello scrittore. Essa infatti è plasmata in base alle sue preferenze e ai suoi dati, dunque in funzione del suo fruitore. Se da una parte questo è ciò che serve al protagonista per avanzare negli stadi della separazione e accettazione del divorzio, si configura però con tutti i limiti dovuti alla diversa essenza e linguaggio dei suoi componenti. Un rapporto amoroso sano infatti ha bisogno di superare le aspettative e proiezioni che il virtuale per sua stessa natura riesce a creare e esaltare.

Il finale del film rivela un punto di vista molto più in favore dell’importanza del coltivare rapporti umani sinceri, per quanto difficile in un mondo connesso ma solitario, con tutto l’impegno e la capacità di entrare realmente in contatto e prendere coscienza di sé che ne consegue. Spunto di riflessione e occasione per porsi qualche domanda, “Her” è una pellicola intima e delicata sull’essenza dell’amore e sulla libertà che lo circonda superando le tendenze al controllo in una società dove tutto sembra dover rientrare all’interno di schemi predefiniti.

Dottoressa Miriam Reale

Giornalista e studiosa di cinematografia

per contatti: miriamreale.mr@gmail.com

Lasciarsi e Ritrovarsi. Amarsi e Riamarsi

In questo brano del grande poeta Whitmann viene descritta una coppia che si ritrova, dopo essersi lasciati e si rendono conto di essersi amati e di non averlo compreso a suo tempo. La sequenza della conversazione è di una significatività incredibile nel descrivere le sensazioni che entrambi rievocano e continuano a provare. Da leggere attentamente

Ti sei fatta crescere i capelli.
– Così pare.
– Ce li avevi corti quando stavi con me.
– Lo so.
– Stai bene,
comunque.
– Grazie.
– Sei proprio bella.
– Non dovresti dirmelo.
Sono la tua ex.
– Posso dirtelo.
Ti ho amato.
Sul suo viso comparve una smorfia: –
Mi hai amato solo perché sono bella?
– No, affatto.
Ti ho amato perché…
in realtà non lo so perché.
– Come sarebbe a dire che non sai perché?
– Che tu eri…
non lo so.
Ci fu un attimo di silenzio, poi lei finalmente sorrise: –
Io ti amavo.
Tu non l’hai mai capito ma io ti amavo.
– Tu non me l’hai mai detto.
– Hai ragione.
Ti ho detto molte altre cose ma non quella.
– Mi hai detto che ero un coglione,
che ti trattavo male,
che ero immaturo…
Sbuffò:-
Dio mio,
lo sai che non lo pensavo davvero.
– E che pensavi davvero?
– Che eri fantastico.
Avevi quel modo tutto tuo
di vedere le cose
e io amavo quel tuo modo
di vedere le cose.
Eri adorabile
quando mi sorridevi dall’altra parte della strada
e quando mi accarezzavi la guancia appena mi vedevi giù di morale.
Eri dolcissimo quando mi permettevi di stare tra le tue braccia
e sai io odiavo sentirmi piccola
ma quando mi stringevi mi sentivo minuscola e stavo comunque benissimo nei tuoi abbracci
ed eri straordinario
quando stavi ad ascoltare le mie paturnie sconnesse come stai facendo ora…
Si fermò per un istante
con le lacrime agli occhi,
poi lo guardò
e la voce le tremava mentre pronunciava quelle parole: –
E come ora mi sorridevi.
Solo che poi mi baciavi
e mi dicevi che andava tutto bene.
Fu un attimo.
Un attimo in cui lui la baciò.
E le disse:
Va tutto bene.
Lei fece un respiro profondo.
– Non avresti dovuto farlo. Sono la tua ex.
– Sai perché ti ho amato?
– No.
– Perché era impossibile non farlo.
Eri qualcosa
che non riuscivo a capire
e quando ci provavo
mi perdevo.
E quando mi perdevo
trovavo i tuoi occhi
e loro mi guardavano sempre con un amore sconfinato, non importava
quanto io fossi stronzo
o quanto ti facessi incazzare o piangere,
i tuoi occhi
continuavano sempre ad amarmi.
Io ti amavo perché eri forte, piccola.
Tu pensavi sempre
che fossi io
a proteggere te
e invece eri tu a proteggere me.
Io non ti ho mai protetto.
E tu non hai idea…
non hai idea
di quante volte mi sono odiato.
Mi sono odiato
tutte le volte in cui non ti difendevo e non ti dicevo di amarti.
Tu non mi dicevi di amarmi ma io sapevo che mi amavi. Io non ti dicevo di amarti ma ti amavo.
Tu lo sapevi?
Il sorriso della donna era triste:
No.
– Ma ti amavo.
Davvero.
– Se l’avessi saputo
non mi sarei arresa con te.
– Quindi adesso saremmo ancora insieme?
– Io sono ancora con te.
– Ma stai con lui.
– E tu stai con lei.
– Ma sono con te.
Lei sospirò:
Non fa niente.
Siamo andati oltre il nostro amore.
– Non lo so.
Siamo ancora qui.
– Non siamo più quelli che eravamo.
– Hai ragione.
Hai i capelli più lunghi.
Finalmente lei rise.
E lui non riuscì a non dirglielo:
Il tuo sorriso è sempre lo stesso,
però.
Il suo sguardo si fece serio
in quello di lui:
Anche la tua capacità di farmi sorridere è sempre la stessa.
– Vuoi sapere la verità?
– Sì.
– Anche il mio amore per te è rimasto lo stesso.
– Vuoi sapere la verità?
– Sì.
– Li vedi i miei occhi?
Si guardarono.
– Li vedo.
– Non lo capisci?
– Che cosa?
– Hai detto che ti guardavano con un amore sconfinato.
– Sì.
– Neanche loro sono cambiati.
Ti stanno guardando ancora così.

W.Whitman

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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Le metamorfosi di Piktor. Una favola d’amore di Hesse

Questa favola di Hermann Hesse descrive, attraverso l’uso della metafora dell’albero, che ogni forma diventa completa se si unisce ad un altra. Si può vivere benissimo da soli ma prima o poi ci si confronta con la mancanza di una persona da amare che permette di completare la nostra esistenza.

Piktor era appena entrato in Paradiso, quando si trovò di fronte ad un albero, che era nel contempo uomo e donna. Piktor salutò l’albero con riverenza e gli chiese: “ Sei tu l’Albero della Vita?” Siccome, tuttavia, il serpente pretendeva di rispondergli al posto dell’albero, egli volse le spalle e se ne andò. Era tutto occhi, gli piaceva tutto così tanto. Percepiva chiaramente di trovarsi a casa sua, presso la sorgente della vita.
E di nuovo vide un albero, che era nel contempo sole e luna.
Piktor disse: “Sei tu l’albero della vita?”.

Il sole annuì e rise, la luna annuì e sorrise.
I fiori più meravigliosi lo guardarono, con svariati colori e luce, con occhi e visi diversi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano, altri ancora né annuivano, né sorridevano. Tacevano ebbri, immersi in se stessi, come affogando nel proprio profumo. Uno cantava il canto lillà, un altro cantava la ninnananna blu scura. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il suo primo amore. Uno odorava di giardino dell’infanzia, come la voce della madre, il suo dolce buon odore. Un altro gli sorrideva e tendeva verso di lui una curva lingua rossa. Lui la leccò, essa aveva un sapore forte e selvaggio, sapeva di resina e miele e anche del bacio di una donna.
Tra tutti i fiori Piktor s’aggirava pieno di nostalgia e gioia inquieta. Come se fosse una campana, il suo cuore batteva forte; bramava l’ignoto, incerto era il suo desiderio.
Piktor vide un uccello, lo vide seduto nell’erba, raggiante di colori, sembrava che possedesse tutti i colori. Chiese al bell’ uccello variopinto: “ Oh uccello, dov’è la felicità?”
“La felicità?”, rispose il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, ” la felicità, amico mio, è dappertutto, nelle montagne e nelle valli, nei fiori e nei cristalli.

Con queste parole l’uccello felice scosse le sue piume, tirò il collo, agitò la coda, strizzò l’occhio, rise di nuovo, poi rimase seduto immobile, seduto tranquillamente nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore colorato, piume, foglie, artigli e radici. Nella brillantezza dei colori, danzando, divenne una pianta. Piktor lo guardò con meraviglia.
Subito dopo il fiore uccello mosse le sue foglie e gli stami, già si era stancato di essere un fiore, non aveva più radici, si moveva leggero, pendeva lentamente all’insù e già – era diventato una splendente farfalla, che si cullava sospesa, senza peso, tutta luce, con un viso completamente luminoso. Piktor si stupì molto.

Ma la nuova farfalla, la gioiosa e variopinta farfalla uccello fiore con il volto colorato e luminoso volava in cerchio attorno a Piktor, brillò al sole, si fece cadere a terra come un fiocco, rimase ferma davanti ai piedi di Piktor, respirò delicata, tremò un po’ con le ali splendenti, ed ecco che si trasformò in un cristallo colorato, dal quale brillava una luce rossa. La rossa pietra preziosa splendeva meravigliosamente tra l’erba verde e le piante, chiara come delle campane in festa. Il suo regno, però, la profondità della terra, sembrava che la chiamasse; velocemente cominciò a diventare sempre più piccola, minacciando perfino di sparire. Allora Piktor, spinto da un insaziabile desiderio, si avvicinò alla pietra e la portò a sé. Con entusiasmo, egli fissò lo sguardo nella sua luce magica che sembrava riempirgli il cuore con un presentimento di beatitudine. All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero secco, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in tutto ciò che vuoi. Svelto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!
Piktor si spaventò, temendo di perdere la sua felicità.
Velocemente disse la parola e si trasformò in un albero.
Ecco, proprio questo aveva desiderato da sempre, essere un albero. Gli alberi sembravano così pieni di calma, forza e dignità.
Piktor era diventato un albero. Crebbe con le radici nella terra, si alzò verso il cielo, foglie e rami crescevano dalle sue membra e lui fu molto soddisfatto di ciò.

Egli era molto felice. Succhiò con fibre assetate profonde nella terra fresca e soffiava con le sue foglie in alto nel blu. I coleotteri vivevano nella sua corteccia, ai suoi piedi vivevano lepri e tartarughe, nei suoi rami gli uccelli. L’albero Piktor era contento e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima di rendersi conto che la sua felicità non era perfetta. Lentamente imparò a vedere con gli occhi da albero. Alla fine si vide e diventò triste.

Infatti, egli vide che intorno a lui, in paradiso, la maggior parte degli esseri si trasformava molto spesso, che tutto scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide i fiori diventare pietre preziose o volare via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in una fonte, un altro era diventato un coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento con grande piacere, come un pesce allegro guizzando, inventando nuovi giochi in nuove forme. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori. Lui invece, l’albero di Piktor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui scoprì questo, la sua felicità svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: Quando non possiedono più il dono della trasformazione, prima o poi sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dal vestito azzurro si perse in quella parte del Paradiso. Correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione.
Più di una furba scimmia sorrise alle sue spalle, più di un cespuglio la sfiorò teneramente con un virgulto, più di un albero le gettò un fiore, una noce, una mela senza che lei vi badasse.
Quando l’albero Piktor vide la fanciulla, sentì una grande nostalgia, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo cominciò a riflettere, era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te ! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità.
Ed egli obbedì. Si ricordò delle sue origini, dei suoi anni da uomo, del suo ingresso nel Paradiso, e specialmente di quell’attimo, prima che diventasse un albero, quell’attimo meraviglioso in cui aveva tenuto in mano la pietra magica.
Allora, mentre ogni cambiamento gli era aperto, la vita era stata ardente in lui come non mai! Egli pensò all’uccello, che aveva riso, all’albero con il sole e la luna; gli venne l’idea che aveva omesso qualcosa, dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.

La ragazza sentì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì muoversi dentro di lei, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri,nuovi desideri, nuovi sogni. Attratta da una forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario e triste, ma anche bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido e sentì l’albero rabbrividire profondamente. Sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?

L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale e si protendeva verso la ragazza in un ardente desiderio di unione. Perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così per sempre solo in un albero! Oh come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero, allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!
Un uccello rosso venne volando, un uccello verde e rosso, un uccello ardito e bello, descriveva nel cielo un cerchio. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò di rosso come il sangue rosso, come la brace, cadde tra le verdi piante e splendette di tanta familiarità tra le verdi piante. Il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino ed intorno ad esso non ci poteva essere oscurità.

Non appena la fanciulla ebbe la pietra fatata nella sua bianca mano, si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine solo ora era stato trovato il paradiso.
Piktor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Piktoria, Viktoria.
Egli fu trasformato. Perché questa volta aveva raggiunto la giusta, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato l’intero. D’ora in poi avrebbe potuto trasformarsi quanto volesse. Continuamente scorreva il flusso incantato del divenire attraverso il suo sangue, eternamente prendeva parte al creato che sorgeva ogni ora nuovo.
Egli diventò capriolo, diventò pesce, diventò uomo e serpente, nuvola e uccello. Ma in ogni forma era completo, era una coppia, aveva la luna e il sole, aveva in sé il maschio e la femmina, scorreva come un fiume gemello attraverso le terre, stava come una duplice stella nel cielo.

Eros Ramazzotti ha raccontato questa storia in una sua camzone “FAVOLA”

Dott. Roberto Cavaliere

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La Più Bella Storia d’Amore

In questa bellissima poesia dello scrittore scomparso Luis Sepùlveda è raccontata una storia d’amore sotto forma di riflessioni poetiche. Da leggere attentamente. Ho evidenziato gli aspetti più salienti.

L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al tempo necessario
di imparare i perchè della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.

Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio
Che è la strada e la polvere
la ragione dei passi.

Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.

Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.

Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
la Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.

Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda un a stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perchè La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi

“La più bella storia d’amore” (Luis Sepùlveda)

Dott. Roberto Cavaliere

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Addio Sereno e senza Rancore ad un Amore

Nella bellissima e significativa lettera della scrittrice George Sand ad Alfred de Musset, che riporto di seguito, è descritto quello che dovrebbe essere un addio sereno e senza rancore ad un amore. Addio non facile da effettuare nella realtà se non dopo un processo di elaborazione del lutto della fine di un amore. Ma questa lettera può rappresentare un punto di arrivo di un processo psicologico di separazione ed in questa sede viene proposta in tal senso.

No, mio caro, queste tre lettere non sono l’ultima stretta di mano
dell’amante che ti lascia, è l’abbraccio del fratello che ti resta.

Questo sentimento è troppo bello, troppo puro e troppo
dolce perché io non provi mai il bisogno di finire con lui.
Che il mio ricordo non avveleni nessuna delle gioie della tua vita,
ma non lasciare che queste gioie distruggano e rovinino il mio ricordo.
Sii felice, sii amato.
Come non potresti esserlo?

Ma guardami da un piccolo angolo segreto del mio cuore e scendi lì nei tuoi giorni di tristezza
per trovare lì una consolazione o un incoraggiamento.
Ama dunque, mio Alfred, ama più che puoi.
Ama una donna giovane, bella e che non abbia ancora amato,
trattala bene, e non la fare soffrire.
Il cuore di una donna è una cosa così delicata
Quando non è un ghiaccio o una pietra!

Io credo che non esista una via di mezzo nel tuo modo di amare.
La tua anima è fatta per amare ardentemente, o per seccarsi tutta in una volta.
Tu l’hai detto cento volte, e tu hai avuto modo di smentire
Ma nulla, nulla ha sminuito questa tua affermazione,
Non c’è al mondo nulla che valga se non l’amore.
Forse tu mi hai amato con pena,
per amare un’altra con abbandono.
Forse quella che verrà ti amerà meno di me,
e forse sarà più felice
e più amata.

Forse il tuo nuovo amore sarà più romantico e più giovane.
Ma il tuo cuore, il tuo buon cuore, non lo proteggere, te ne prego.
Che si metta tutto intero
In tutti gli amori della tua vita,
fino a quando un giorno tu possa guardare indietro
e dire come me, io ho sofferto spesso,
mi son sbagliata qualche volta
Ma io ho amato

Dott. Roberto Cavaliere

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La Morte di un Amore

Il seguente brano di Oriana Fallaci descrive in maniera significativa il vissuto emotivo e psicologico della fine di un amore. Da leggere attentamente.

“La morte di un amore è come la morte d’una persona amata. Lascia lo stesso strazio, lo stesso vuoto, lo stesso rifiuto di rassegnarti a quel vuoto. Perfino se l’hai attesa, causata, voluta per autodifesa o buonsenso o bisogno di libertà, quando arriva ti senti invalido. Mutilato. Ti sembra d’essere rimasto con un occhio solo, un orecchio solo, un polmone solo, un braccio solo, una gamba sola, il cervello dimezzato, e non fai che invocare la metà perduta di te stesso: colui o …colei con cui ti sentivi intero. Nel farlo non ricordi nemmeno le sue colpe, i tormenti che ti inflisse, le sofferenze che ti impose. Il rimpianto ti consegna la memoria d’una persona pregevole anzi straordinaria, d’un tesoro unico al mondo, nè serve a nulla dirsi che ciò è un’offesa alla logica, un insulto all’intelligenza, un masochismo. (In amore la logica non serve, l’intelligenza non giova e il masochismo raggiunge vette da psichiatria.) Poi, un po’ per volta, ti passa. Magari senza che tu sia consapevole lo strazio si smorza, si dissolve, il vuoto diminuisce e il rifiuto di rassegnarti ad esso scompare. Ti rendi finalmente conto che l’oggetto del tuo amore morto non era nè una persona pregevole anzi straordinaria, nè un tesoro unico al mondo, lo sostituisci con un’altra metà o supposta metà di te stesso e per un certo periodo recuperi la tua interezza. Però sull’anima rimane uno sfregio che la imbruttisce, un livido nero che la deturpa e ti accorgi di non essere più quello o quella che eri prima del lutto. La tua energia si è infiacchita, la tua curiosità si è affievolita e la tua fiducia nel futuro s’è spenta perchè hai scoperto d’aver sprecato un pezzo d’esistenza che nessuno ti rimborserà. Ecco perchè, anche se un amore langue senza rimedio, lo curi e ti sforzi di guarirlo. Ecco perchè, anche se in stato di coma boccheggia, cerchi di rinviare l’istante in cui esalerà l’ultimo respiro: lo trattieni e in silenzio lo supplichi di vivere ancora un giorno, un’ora, un minuto. Ecco infine perché , anche quando smette di respirare, esiti a seppellirlo o addirittura tenti di resuscitarlo. Alzati Lazzaro e cammina.

Oriana Fallaci

Dott. Roberto Cavaliere

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Guarire da un Amore

Nel brano della scrittrice Jaime Sabines che riporto di seguito, viene descritto, con tratti anche dissacranti, una modalità per guarire da un amore malsano. Si può essere più o meno d’accordo col contenuto ma ritengo che sia un utile spunto di riflessione.

“Spero di riuscire a guarire da te, uno di questi giorni.

Devo smettere di fumarti, di berti, di pensarti. È possibile. Seguendo le prescrizioni della morale di turno. Mi prescrivo tempo, astinenza, solitudine.

Ti va bene se ti amo solo una settimana? Non è molto né poco, è abbastanza. In una settimana si possono riunire tutte le parole d’amore che sono state dette sulla terra e gli si può dare fuoco. Ti scalderò con quel falò dell’amore bruciato. E anche il silenzio. Perché le parole d’amore più belle si trovano tra le persone che non si dicono niente.

Bisogna bruciare anche quell’altro linguaggio laterale e sovversivo di chi ama. ( Tu sai come ti dico che ti amo quando ti dico: «Che caldo che fa», «Dammi l’acqua», «Sai guidare?», «Si è fatta notte»…Tra le persone, in mezzo alla tua famiglia e alla mia, ti ho detto «Si è fatto tardi», e tu sapevi che ti dicevo «Ti amo»).

Un’altra settimana per mettere insieme tutto l’amore del tempo. Per dartelo. Perché tu ne faccia quello che vuoi: conservarlo, accarezzarlo, buttarlo nell’immondizia. Non serve, è vero. Voglio solo una settimana per capire le cose. Perché tutto questo è molto simile a uscire da un manicomio per entrare in un cimitero.”

Jaime Sabines

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private (anche telefoniche e/o via Skype)tel.320-8573502 o email:cavaliere@iltuopsicologo.it

La Paura della Separazione

La poesia “L’Addio” di Solinas descrive il timore che pervade ogni nuovo amore e/o relazione sin dall’inizio: la Paura di Separarsi. Ma allo stesso tempo l’amore trova il suo culmine proprio nella paura della perdita della persona amata e della resistenza che si oppone in tal senso. Potremmo dire che un amore finisce nel momento in cui cessa tale paura. Perchè avere paura di separarsi è del tutto naturale e connaturato all’amore, anche nelle relazioni che durano da anni ed hanno superato fasi critiche.

Sarai, amore,
un lungo addio che non finisce?
Vivere, dal principio, è separarsi.
Già fin dal primo incontro
con la luce, e le labbra,
il cuore percepisce quell’angoscia…
di dover esser cieco e solo un giorno.
Miracoloso ritardo, l’amore,
del suo termine stesso:
è prolungare il fatto magico,
che uno e uno siano due, di contro
alla prima condanna della vita.
Con i baci, col dolore e col petto si conquistano,
in affannose zuffe, godimenti
che sembrano giochi,
o giorni, terre, spazi favolosi,
la grande disgiunzione che è in attesa,
sorella della morte o proprio morte.
Ogni bacio perfetto scosta il tempo,
lo getta indietro, amplia il mondo breve
dove ancora è possibile baciare.
Non ha il suo culmine l’amore
quando arriva o si trova:
ma nella resistenza a separarsi
dove si può sentire,
altissimo, nudo, tremante.
Nè la separazione è quel momento
in cui le braccia, o voci,
con segni materiali si congedano.
E’ di prima, di dopo.
Se si stringono mani, se si abbraccia,
non è mai per dividersi,
ma perchè l’anima alla cieca sente
che la forma possibile di stare
insieme è un lungo, e chiaro congedo.
E che è l’addio ciò che è più sicuro.

Pedro Salinas

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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